Le ragioni della proliferazione di azioni giudiziarie in Italia sono tante e diverse. Una di queste, senz’altro, è l’assenza di effetti rilevanti per la parte soccombente, se non quella del pagamento delle spese legali.
Proprio l’assenza di deterrenti sostanziali induce taluno, sempre con maggior frequenza, a proporre azioni giudiziali in modo sistematico e ripetuto, che, seppure infondate, possano indurre la controparte a “più miti consigli”.
Nel mondo anglosassone questo non succede. Oltre il 90% delle azioni promosse avanti l’autorità giudiziaria viene risolta in via transattiva prima che arrivi al Giudice o comunque prima della sentenza. I motivi sono tanti, a partire dall’obbligo della disclosure, da un meccanismo di mediation strutturato e culturalmente radicato, fino ad arrivare al danno punitivo e allo “spauracchio” delle spese legali, notoriamente elevate.
Nell’ordinamento italiano, in ambito civile, l’art 96 c.p.c. sancisce che <<se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza (.....). In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata>>. Quest’ultimo comma, introdotto con la legge di riforma18 giugno 2009, n. 69 contempla il cosiddetto danno punitivo, con palese intenzione del Legislatore di disincentivare il ricorso al Giudice, se colposamente infondato.
In realtà, l’art. 96 c.p.c. ha storicamente trovato scarsissima applicazione. Solo di recente, e opportunamente, i Tribunali sembrano recepire la funzione deterrente della norma in esame, dal ché la parte che si accinge ad agire in giudizio, e i relativi avvocati, dovranno mettere in conto la possibilità che l’azione temeraria possa essere sanzionata con il danno punitivo.
Il fenomeno sta assumendo una dimensione allarmante, al punto tale che negli ultimi tempi si sta affermando, sia in dottrina che in giurisprudenza, la teoria dello stalking giudiziario. L’art. 612 bis c.p. stabilisce che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita …”.
Le sentenze di condanna per stalking giudiziario sono ancora limitate e sostanzialmente relative alle diatribe tra coniugi in fase di separazione o divorzio dove non è infrequente che l’uno subissi l’altro di querele ed azioni giudiziarie, anche infondate, allo scopo di ottenere condizioni più favorevoli. Il principio tuttavia è estensibile a qualsiasi controversia per cui è legittimo attendersi un’evoluzione giurisprudenziale sul punto.
Avv. Stefano Salardi